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In quel tempo, si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
(Lc 13, 1-9 – Sabato della XXIX settimana del Tempo Ordinario – Anno A)
Medita
Gesù ancora una volta ripudia la famosa dottrina della retribuzione, centrale nell’Antico Testamento e in quel tempo, che legava rigorosamente peccato e punizione. Secondo tale teoria l’uomo che commetteva peccato avrebbe dovuto scontare la propria pena.
Nonostante Giobbe sia l’esempio del giusto che soffre senza alcuna colpa, in quel tempo era convinzione comune credere che le disgrazie fossero una conseguenza delle proprie azioni immorali. Ma Gesù, ancora una volta, dimostra che non è così.
La morte dei diciotto uomini sui quali crollò la torre di Siloe non è da attribuire alle loro colpe, ma a diversi fattori esterni come la superficialità e le imperfezioni di chi l’ha ideata e realizzata, così come il sangue sparso dei Galilei è più da attribuire alla sete di potere di Pilato piuttosto che alle colpe o mancanze degli uomini.
Così Gesù, distaccando tale nesso tra colpa e punizione, colpa e sofferenza, si sofferma su qualcosa di ben più alto: la conversione del cuore.
Ciò che conta davvero è la conversione autentica e sincera dell’uomo.
Su questo piano siamo tutti uguali, non vi è più alcuna distinzione tra buoni e cattivi. Piuttosto “se non vi convertire perirete tutti allo stesso modo”. Non è la platealità degli eventi – come le disgrazie, le sofferenze – a mostrarci la bontà o la cattiveria di una persona, al contrario è ciò che ha nel cuore a manifestare se la sua conversione è autentica o meno.
Questa conversione ha anche un tempo, un tempo in cui l’uomo è chiamato a portare frutto, come leggiamo a partire dalla parabola del fico.
Si scorge una fiducia instancabile di fondo: nonostante siano trascorsi tre anni senza alcun frutto, dinanzi alla proposta del padrone di tagliare l’albero sterile, si contrappone la speranza fiduciosa del contadino, il quale chiede il tempo di un anno: un anno di lavoro, un anno di cure ed attenzioni affinché il fico riprenda vigore e porti frutto.
Così è Dio con ognuno di noi: ci lascia liberi di seguirlo o meno, di portare frutto o rimanere improduttivi e nonostante siano trascorsi ben tre anni del tutto infruttuosi, ci dona ancora un’altra possibilità. Un anno in cui lui si prenderà cura di noi, annaffierà le nostre radici e zapperà il terreno arido del nostro cuore.
Per Dio l’eventuale frutto che potrò produrre domani è più importante della mia inutilità di oggi. Dio crede in me, prima di me.
Vivi
E tu ci credi? Credi che davvero Dio ti ha piantato, non per essere sterile, ma per portare frutto?
Rifletti, allora, sulla tua vita. Fai luce sulla tua esistenza allo scopo di poter comprendere in che modo puoi portare frutto nel mondo lì dove Dio ti ha posto.