person with black and silver leather gloves holding black and silver hair dryer

La morte e la tecnica: tra riconciliazione e prospettive future

Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali;
Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.
San Francesco d'Assisi

Dopo aver approfondito il senso della liturgia in occasione della commemorazione dei fedeli defunti, e di come successivamente sia importante saper attraversare la perdita dei nostri cari, in questo articolo rifletteremo insieme sul significato della morte e di come l’uomo del nostro tempo vi cerchi in qualche modo rimedio.

Il paradosso della morte

La morte è un paradosso. Perché da un lato è lacerazione, rottura, solitudine, incomunicabilità (come afferma E. Jüngel), ma dall’altro lato è “sorella morte”. In altre parole, dinanzi alla morte si ha la rottura ma anche riconciliazione. Queste due facce le troviamo in due composizioni musicali (che è possibile ascoltare tramite i seguenti link):

1. Da una parte abbiamo la Trenodia per le vittime di Hiroshima, che è l’apoteosi della dissonanza. Lì scopriamo il massimo della lacerazione, per questi momenti così drammatici che rievocano l’urlo di Munch. È la rappresentazione musicale dell’urlo. Qui la musica diviene rumore dell’anima inquieta.

2. Dall’altra c’è il Requiem di Mozart, che è una specie di danza, soprattutto nel Kyrie.

Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú

Epicuro

Ma a differenza di Epicuro, il pensiero mi dice che io ho paura della morte. Noi siamo votati alla morte sin dal concepimento. Noi facciamo esperienza della morte quando muore la persona amata. E ogni morte di uomo ci diminuisce. Ma ne facciamo esperienza anche perché invecchiamo, ci ammaliamo.

E dunque cosa succede ad un certo punto? Arriva l’angoscia che non è solo un sentimento, un’affezione. È una struttura, è un campanello che mi risveglia dall’esistenza banale per mettermi in crisi. Percepisco come la vita abbia una fine. A questo punto comincio a interrogarmi su cos’è la vita. In questo interrogare viene fuori la libertà. La morte dunque ci mette di fronte non solo al mistero dell’uomo ma anche a quello di Dio.

C’è una tendenza nella nostra società, cultura occidentale, (tecnocratica?), a rimuovere la morte. La morte è diventata un tabù, mentre prima era il sesso. C’è un tentativo di rimuoverla, perché ci provoca, ci trova impreparati. Un tempo c’erano i corsi per prepararsi alla morte, basti pensare all’Apparecchio alla morte di S.Alfonso Maria de’ Liguori. Prima si sentiva la necessità di prepararsi alla morte. Non saremo mai pronti alla morte, ma pensarci ci aiuta. Occorre pensare la morte come una soglia.

Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo

Prefatio della Messa dei defunti

La morte dunque è una trasformazione. E ad essa ci dobbiamo preparare. L’ultima trasformazione sarà la morte. E ogni trasformazione prevede un distacco.

Secondo F. Rosenzweig si muore tre volte: quando si nasce, perché si comincia già a morire, cioè vi è il distacco della nascita dal grembo materno e ciò è doloroso; poi c’è il distacco della pubertà perchè ci si scopre sessuati, cioè mancanti di qualcosa, e si vive questo come una solitudine. Poi c’è anche l’ultimo distacco al quale tutti siamo chiamati, la morte. Essa è una livella. Siamo tutti uguali perché tutti siamo chiamati alla morte.

E tuttavia non è detto che sia sempre e comunque prevedibile sapere il “quando” e il “dove” si muore. C’è una certezza del morire ed una incertezza sul dove e quando. Questo è umano. Ciò è stato tematizzato da Vladimir Jankélévitch. Chi ha la certezza di entrambe sono il suicida e il condannato a morte. Cioè condizioni disumane.

Ma l’inizio e la fine dell’esistenza sono nel mistero, non ci appartengono, non lo abbiamo deciso noi di nascere, nè spetta a noi decidere sul morire. Semmai è il perché della nostra vita che dobbiamo scoprire. L’inizio della nostra vita è nel mistero, come la fine. La tentazione di essere padroni della vita e della morte è diabolica. Perdiamo il senso del mistero e perdiamo anche il senso dell’immortalità.

Sul piano dell’immortalità ci chiediamo: cosa c’è dopo la morte? O meglio dovremmo dire chi c’è dopo la morte? Cioè cosa resta di me? Cosa è eterno? E degli altri? La morte non è un luogo, ma il momento del giudizio su ciò che abbiamo compiuto nella vita, e tale giudizio è irreversibile. Cioè è definitivo sulle scelte fondamentali che abbiamo fatto della nostra vita. E restano quelle scelte vere, quelle autentiche.

La tecnica come superamento della morte?

Le serie TV e i film di fantascienza, in un certo senso, anticipano con l’immaginario gli scenari che la tecnologia (sostenuta da alcune correnti scientifiche come il transumanesimo) in qualche modo cerca di implementare. Basti pensare alla serie televisiva Black Mirror per avere idea di una delle modalità per “continuare a vivere” nella forma di un androide superando il dramma della morte.

Ma andando ai fatti concreti, oggi si parla di mind uploading, cioè della scansione del cervello per la sua digitalizzazione e caricamento in rete; si parla di ibridazione uomo-macchina che via via comincia ad interessare molto di più rispetto a quella uomo-animale. In quest’ultimo caso è sufficiente far riferimento a tutti i nuovi sistemi di protesi che implementano tecnologie ulteriori rispetto ai cinque sensi umani: la protesi di una mano potrebbe avere in sè diverse modalità d’uso che potrebbe ampliare le funzionalità di una mano naturale!

La tecnologia con la sua miniaturizzazione entra sempre più nel corpo umano. Già è possibile impiantare retine artificiali nell’occhio umano. Grazie alla tecnica evitiamo delle sofferenze, sconfiggiamo alcune malattie, e così posticipiamo la morte. Ma… qual è il limite?

A questo punto occorre riflettere sulla direzione a cui l’anelito all’immortalità spinge la ricerca tecnologica. Ciò che appartiene alla condizione umana è un’immortalità che però dice un’altra vita, non un prolungare le condizioni stesse di questa esistenza, o addiritturla cambiandone la natura in robot.

Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

Benedetto XVI, Spe Salvi, n.10

Cosa dà senso alla vita?

Ciò a cui l’uomo aspira non è un’immortalità all’interno dello stesso orizzonte umano. L’uomo non desidera prolungare all’infinito questa esistenza, ma semmai di un’altra esistenza, chiamata risurrezione.

Dunque il tema che fa da spartiacque tra l’antica filosofia di Socrate e il messaggio cristiano non è l’immortalità, perchè già c’era arrivato Socrate. Non c’era bisogno del cristianesimo per dire l’immortalità. Ma è la risurrezione, che riguarda tutta la persona. Noi non diciamo che è morto il corpo di mio nonno, ma è morto mio nonno. Muore tutta la persona e risorge tutta la persona. Noi non preghiamo il corpo di S.Francesco, ma la persona di S.Francesco. Il nostro destino è il risorgere. Ciò significa che ciò che abbiamo vissuto, la nostra storia, le nostre relazioni, li portiamo con noi. Ciò che facciamo, lo facciamo attraverso il corpo, sia il bene che il male, e non solo con l’anima.

Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa « vera vita »; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti

Benedetto XVI, Spe Salvi, n.11

Attraverso la morte si sperimenta la solitudine e l’abbandono di Dio. Questo vive il Crocifisso, una solitudine e un abbandono totale. Ma mentre è abbandonato, Gesù si abbandona totalmente “nelle tue mani consegno il mio spirito”. E. Jüngel sosteneva che la morte è l’apoteosi dell’irrelazionalità, cioè l’ultima solitudine. Di fronte alla morte sei da solo, perchè anche se sei circondato dai tuoi cari, muori comunque tu, da solo. Il teologo prosegue con la domanda: cosa dà senso a questa solitudine? La morte di Cristo, cioè l’amore. Il cristianesimo dice che l’amore di Gesù è più forte della morte. Questa solitudine riceve senso nella misura in cui si ama, ma si ama nel momento della morte, se la propria vita è stata esercizio di amore, amore autentico, incondizionato.

Dire ti amo significa diretu non morirai.

Gabriel Marcel
Condividi questo articolo nei tuoi social

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: