Dopo aver analizzato la tematica della morte, definita cristianamente “sorella”, da svariati punti di vista (liturgico, psicologico, cristiano), in questo articolo infine rifletteremo insieme sul significato della sofferenza e sul desiderio insito in ogni uomo di vivere una “buona morte”.
Ma cosa significa vivere bene il momento della morte o avere la possibilità di vivere una buona morte?
La malattia è sofferenza per l’uomo
Innanzitutto, prima di entrare nel cuore di tale questione occorre gettare lo sguardo alla società odierna e notare come essa sia cambiata rispetto ai secoli scorsi.
La medicina senza dubbio si è evoluta, ma anche l’uomo ha avuto il suo progresso da un punto di vista umano e vitale: molte malattie sono state debellate grazie alla medicina ed oggi si sopravvive molto più a lungo rispetto al passato. Tuttavia, tale allungarsi della vita umana ha comportato non pochi problemi, anzi la conseguenza di questo coincide con il dover fare i conti con la fase finale della propria esistenza che è una vera e propria fase di declino.
Gli uomini del nostro tempo, infatti, sono costretti a convivere in compagnia di malattie spiacevoli come quelle degenerative (Parkinson, Alzheimer, diabete, etc …) per molto più tempo rispetto agli uomini delle epoche passate. E accettare tutto questo è così difficile che ancora oggi non ci siamo riusciti.
La mente umana, poi, ci illude che qualsivoglia sofferenza dell’uomo possa risolversi mediante l’intervento della medicina moderna, ma ci delude quando prendiamo coscienza che essa non è in grado di guarire tutte le malattie, semplicemente perché è frutto delle mani dell’uomo e come l’uomo non è perfetta. Tutto questo non fa altro che generare nel cuore dell’uomo sofferenza e paura.
Sì, perché la malattia è sofferenza. L’essere malati implica il dover fare i conti con la prova, la sofferenza e la fatica che sono connesse alla malattia stessa, perché tramite i primi segnali di cedimento l’uomo prende coscienza del suo limite attuale e pensa a quello futuro, pensa infatti di non essere più pienamente autonomo e che un giorno probabilmente si ritroverà nelle mani di qualcun altro che deciderà per lui. Questo getta l’uomo nello sconforto più totale e nella sofferenza. Molteplici sono le domande di chi si trova in questa condizione (Perché? ad esempio), ma tutte ci riconducono al cuore della domanda e cioè: il senso. Nel tempo della malattia tutti i significati della vita divengono opachi ed oscurati, non c’è più nulla che valga la pena essere desiderato o sognato.
Sembra quasi che tale nuova condizione faccia riflettere l’uomo sull’importanza della vita e sul suo essere valore sacro e inviolabile. Ma prima di allora quasi nessuno si rende conto della sua grandezza e importanza. La sofferenza, dunque, è un grande campanello che ci interpella tutti, non soltanto chi è chiamato a fare i conti con essa, ma interroga tutti gli uomini, perfino la Chiesa:
«La Chiesa, nella sua azione pastorale, è chiamata ad affrontare le più delicate e non eludibili questioni che sorgono nell’animo umano di fronte alla sofferenza, alla malattia e alla morte»
Osservatore romano, 22 gennaio 2005, 5.
Alcune questioni etiche emergenti...
Oggi sono molte le questioni particolarmente “spinose” che richiedono un’analisi etica e cristiana. Ne prendiamo in esame solo qualcuna:
– Accanimento e abbandono terapeutico: con l’espressione accanimento terapeutico si intende l’attuazione di trattamenti dai quali non ci si può attendere un beneficio, un miglioramento della qualità della vita, né tantomeno una guarigione. Quindi è comune ormai l’idea di evitare o sospendere tali terapie.
Al contrario l’abbandono terapeutico consiste nella rinuncia di uno o più trattamenti, da parte del medico, dinanzi ad un paziente terminale per il quale qualsiasi azione terapeutica sarebbe superflua e inutile. Essa, contribuendo ad anticipare la morte appare per molti come una forma di eutanasia passiva.
«Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”»
Samaritanus bonus, 2.
– Nutrizione e idratazione artificiali: nel malato terminale, refrattario alle terapie, è di fondamentale importanza garantire alimentazione/idratazione artificiali o non, poiché la sospensione di queste determinerebbe rapidamente una disidratazione e gravi conseguenze per il soggetto che possono gradualmente causarne il decesso.
«Alimentazione e idratazione […] rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile».
Samaritanus bonus, 3.
– Cure palliative: esse rappresentano un approccio che migliora la qualità della vita del malato nella fase terminale della sua esistenza. Proprio quando si pensa che non ci sia più nulla fare e si sospendono le terapie mediche per non incorrere nell’accanimento terapeutico, si preferisce scegliere la via delle cure palliative, che non hanno lo scopo di allungare o accorciare l’esistenza, ma renderla unicamente più dignitosa, dando sollievo alla sofferenza.
Tale background ci permette di comprendere come per l’uomo di oggi sia sempre più difficile accettare la sofferenza fisica e morale, la malattia e la morte. Anzi, in realtà, preferisce accettare la morte – purché sia una “buona morte” – anziché soffrire.
Ma cosa significa morire bene?
Per l’uomo odierno morire bene significa non soffrire o, soprattutto, non morire soffrendo. Fino a qualche decennio fa si pregava per essere liberati dalla morte improvvisa, mentre oggi la maggior parte delle persone si augura di morire velocemente, senza vivere il declino dell’esistenza. Ecco che si ricorre molto favorevolmente all’idea di eutanasia, perché si concepisce questa pratica come lo strumento per evitare che la fase finale della propria esistenza sia dominata da dolore, sofferenza e dipendenza dagli altri.
Si è giunti perfino al punto di rimuovere in maniera drastica l’idea della sofferenza futura, pensando già adesso – magari in piena salute – e firmando le cosiddette DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento), che consentono all’uomo di pensare alla propria esistenza in maniera più serena e spensierata, poiché dopo questo atto sa con certezza che qualsiasi cosa accada ci sarà sempre qualcuno pronto a far valere i suoi diritti ed a far sì che muoia dignitosamente (ovvero evitando il prosieguo della sofferenza).
È chiaro che col tempo si è verificato anche uno slittamento di significato per quanto concerne il termine “eutanasia”. Essa letteralmente significa “buona morte” o “dolce morte”, ma difatti non coincide con ciò che si intende nel linguaggio medico o giuridico oppure è stato umanamente frainteso, poiché per eutanasia si intende “l’intervento intenzionalmente programmato per interrompere in maniera diretta e primaria una vita, quando questa si trova in particolari condizioni di sofferenza o d’inguaribilità o di prossimità della morte”. In essa si distingue, poi, l’eutanasia attiva (intervento diretto che realizza l’intenzione uccisiva) e l’eutanasia passiva (omissione di sostegno clinico che provoca il medesimo effetto), pertanto tra le due la differenza è minima in quanto realizzano il medesimo obiettivo: la morte.
«L’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente»
Samaritanus bonus, 1.
Morire con dignità
Ci si rende conto che cristiani e non auspicano entrambi la dignità del morire, ma intendendo significati diversi e opposti. Alcuni per morire con dignità intendono la liberazione dal dolore attraverso l’eutanasia attiva. Altri intendono, invece, il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’applicazione delle cure palliative che curano anche quando non è possibile guarire.
Ecco il vero significato del morire con dignità. Ogni uomo è persona, in ogni fase della sua esistenza, non soltanto quando è giovane e sano, ma sempre. Si preferisce, infatti, parlare ad esempio di “persona con disabilità” piuttosto che “disabile”, o di “persona con malattia”, piuttosto che semplicemente “ammalato”, perché nonostante quella specifica caratteristica rimane pur sempre una persona e, dunque, portatrice di dignità come tutti gli altri.
Pertanto, a conclusione di quanto detto possiamo affermare che la morte non è qualcosa dalla quale fuggire, o qualcosa che ci raggiunge improvvisamente come un fulmine a ciel sereno. Anzi, fa parte della nostra esistenza ed è una tappa naturale che va però vissuta con dignità, il che significa che – nonostante i progressi della scienza e della tecnica che hanno offerto all’uomo la possibilità di vivere molto più a lungo rispetto al passato – ciò che conta veramente non è unicamente vivere, vivere con dignità, ma anche e soprattutto morire con dignità.
Come può mai la morte essere dignitosa se pone fine all’esistenza?
Ecco che qui subentra la speranza cristiana. Ogni cristiano sa che la vita umana è dono bello e grandioso, che si conclude con la morte terrena, ma che subito ci proietta e catapulta alla vita vera, la vita eterna, quella per cui vale davvero la pena lottare.
Tutti ricordiamo molto bene quell’Uomo che ci ha insegnato come morire. Più volte il maligno ha cercato di sedurlo offrendogli la via più facile («Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”» Mt 4,5-6) ma lui non ha mai ceduto. Fissiamo, dunque, il nostro sguardo su Cristo che, pur potendo, non ha allontanato da sé l’esperienza della morte affinché potesse donarci un esempio e potesse salvarci.
Se Cristo non fosse Risorto vana sarebbe la nostra fede ed ogni altro elemento ad essa connesso, allora davvero occorrerebbe trovare altre strade. Ma quali? Può mai qualcosa di finito saziare la nostra aspirazione verso l’infinito?
Se invece Cristo è risorto, allora la morte non è l’ultima parola. C’è una promessa che può suscitare una speranza anche nel deserto di senso che spesso ci avvolge.
Lasciamoci allora salvare ancora una volta, anche quando la nostra vita – nella sua sera – sembra disattendere le nostre attese.